Assunto di base

La mente è come un paracadute. Funziona solo se si apre.
(Albert Einstein)

mercoledì 30 luglio 2008

Serenata


1. Verifica che la finestra sia quella giusta
2. La chitarra elettrica non è romantica
3. Cantare in playback nemmeno
4. Lascia il motore dell’automobile acceso
5. Se sei troppo stonato inventati qualcos’altro


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lunedì 28 luglio 2008

Certi inciampi linguistici

di Salvatore Insana




Acrobazie labirintiche intrecciate, moltiplicarsi di letture nell'affollamento, divaricarsi di lingue e linguaggi per compiere azioni diverse. Vado infine a stendermi su quelle enormi poltrone della multisala Mk2 più vicina. Ascoltare in inglese, leggere in francese, pensare in italiano...e vedere? come? comprendere? Quando?...Certi inciampi linguistici buffi ed inattesi fanno tuttavia sobbalzare. “Il futuro non è chiaro per me”...confessa il piccolo tedesco durante l'atelier di lingua. Ma è del tempo verbale che stava parlando, e non di ciò che interessa maggiormente noi tutti, ovvero il proseguimento sano o felice della nostra avventura.
Un continuo stato di allerta, un ripetuto dibattersi ed interrogarsi quando c'è da intraprendere una discussione nell'altra lingua. Dubitare su cosa avrà mai detto quel tale, di cosa si trattava esattamente in quel dialogo, cosa è rimasto intrappolato nella traduzione? Eppure sopravvive una certa rilassatezza del sentirsi in ferie dal proprio linguaggio ufficiale, forse anche dal proprio personaggio abituale. Eppure in tale situazione, diviene più stimolante quel brivido continuo: dare un nome alle cose. L'azione è meno ovvia, più meditata, sempre all'interno di una libertà inusitata di parola e delle parole che vanno e vengono incontrollate, mentre si va confessando a se stessi che d'un proprio linguaggio multicolore ormai ci si serve, una piattaforma molteplice che di tutti questi apporti si serve con continuità crescente.

Essere in un cruciverba nel quale si va sempre cercando la parola mancante..e gli spazi vuoti sono ancora numerosi...un cruciverba dai tratti esistenziali e metaforici, di quelli per i quali serve forse un dizionario non ancora concepito, un formulario non ancora pensato, uno stradario che fa della vaghezza il suo punto di riferimento. Ogni nuova parola scovata e memorizzata è un passo avanti nella costruzione Il grande crossword è la città, ed io di questo gioco sono il piccolo attore che s'arroga il ruolo sublime del viaggiatore smarrito. In cerca di definizione, e senza dubbio di una piena destinazione, riempo progressivamente le caselle, colmo il bicchiere di nuovi termini lo svuoto ancora e provo a districarmi ad un livello ulteriore, nei pressi di un altro quartiere o di una rue ancora sconosciuta. E chi o cosa saranno mai le caselle oscure?

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venerdì 25 luglio 2008

La fede in metro

di Salvatore Insana





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mercoledì 16 luglio 2008

Non ci sono più le mezze stagioni

di Licia Ambu


Da tempo immemore, allo scattare del gap generazionale, sulle bocche dei più campeggiano frasi come: “Non ci sono più i giovani di una volta!” oppure “Con tutte queste nuove tecnologie non si capisce più niente, sono arabo per me!” o ancora “I giovani sono senza valori”. Affermazioni enunciate con cadenza quotidiana, spesso incalzate da un’eco storica notevole. Per quanto riguarda la mia esperienza personale, ciò si traduce all’incirca in un allarme quotidiano, ad opera, il più delle volte, della sociologia possiamo dire popolare. Eppure questa fobia del nuovo nella pratica non si traduce in una fuga di cervelli, al contrario, ad un’occhiata più approfondita, ci si accorge che il cyber spazio pullula d’indirizzi freschi e, indubbiamente, posta un’accurata considerazione dei contenuti, non tutti abitati da sbarbatelli fritti a puntino dall’ultima Play Station.

Oddio, mi si taccerà di bestemmia per quanto affermato. Sembra quasi che in questa sede si voglia far passare la rete per uno strumento democratico! Sarebbe come dire che in rete, sotto l’egida di “maneggiare con cura”, chiunque ed ovunque, può accedere e creare qualcosa di personale, senza possedere neuroni targati Nasa. Impossibile. Eppur si muove! A questo punto non ci resta che provare! Inseriamo in un qualunque motore di ricerca i termini Creare un blog. Ora dovremmo ritrovarci davanti una sequela di indirizzi che ci promettono, in cambio di un semplice account e dieci minuti di pazienza, un nostro blog , il tutto senza uno straccio di competenza informatica. Ebbene lo spirito creativo che ci abita non ha più inibizioni. Creato il nostro account, siamo cittadini della rete. Siamo in regola. La prossima fase è battezzare la nostra creatura. Non resta che arredare la nostra stanza virtuale secondo lo stile che più assomiglia al colore delle idee e dei significati che vogliamo far veicolare al nostro blog e il gioco è fatto. Semplice no? Ora siamo blogger. Abbiamo colonizzato il nemico e ci apprestiamo ad essere gli amministratori del nostro personale spazio on line. Siamo internauti comprovati. Abbiamo a nostra disposizione uno spazio da gestire come preferiamo. Se ad esempio decidessimo di pubblicare il nostro prossimo pensiero non dovremmo fare altro che cliccare sulla voce Nuovo post e scrivere: Sto pubblicando il mio primo post. Superato lo scoglio del primo gli altri verranno da soli, si spera con qualche contenuto più rilevante.
In effetti, si potrebbe controbattere che proprio la facilità di accesso comporti il rischio che ad essere veicolati siano contenuti talvolta poco apprezzabili, ma questo fa parte del gioco, d’altra parte anche la Bibbia è questione di autorevolezza delle fonti. Quando, però, si tratta di un utilizzo costruttivo e, oserei dire, anche terapeutico ne nascono opere d’arte tra il serio ed il faceto. Come avvenne per le radio libere e di movimento anche i blog diventano manifesti del pensiero politico, portatori di istanze umanitarie, diari di bordo o album fotografici a colpi di ultimi post. Ma citiamo qualche dato: per quanto riguarda il nostro paese, l’epidemia è approdata in Italia negli ultimi anni con cifre interessanti. Si è passati dai 300 blog del 2002 [1] ai 5000 del 2003, per poi crescere vertiginosamente in seguito, fino ad oggi. Tutto sommato non male per un paese di vecchi! (Come cantano sempre più frequenti statistiche). Mio malgrado è proprio questo il punto.
Insomma, esiste in tutto questo un aspetto a dire il vero poco democratico in un tale contesto. A puro discapito dei neuroni new generation ed in particolare di quelli che subiscono le sciorinate esistenziali sui giovani senza valori, il blogger è senza identità.
Magari dietro Pulsatilla si cela proprio la signorina matura che palpeggia tutta la cassetta di mele al mercato alla ricerca di quelle migliori, mentre si lamenta di quel cervello fritto del nipote. Ma questo chi può dirlo? Probabilmente, a meno di coglierla sul fatto, noi non lo sapremo mai. Ma questa è un’altra storia.
In fede
una blogger.

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martedì 15 luglio 2008

Dimenticare la distanza. A proposito di un Woody Allen

di Salvatore Insana




It's me, not him. Isn't that obvious? - Well, how do you explain that here I am?

Woody Allen è nel “post”. Ha visto tutto il meglio del cinema d'autore e di genere che lo ha preceduto. E allora non può che venir dopo la sophisticated comedy anni '30, dopo Godard, dopo Bergman, dopo Fellini. Il suo è un cinema che ha preso coscienza dello strumento, che conosce la storia passata, che riflette sulle interconnessioni tra dispositivo e utente. Tutto converge, confluisce, entra e si mescola nel lavoro di questo cineasta atipico, sfuggente, incatalogabile, che scivola a lato dell'autorità e dell'autorevolezza, sulle ali del più raffinato humour jiddish.

La rosa purpurea del Cairo, sua magistrale opera datata 1985, ci lancia schegge impazzite e sovversive di pensiero non irregimentato, tra dialoghi che parodieggiano i ritmi ed i modi di una certa commedia tanto leggera quanto lunare, sonorità anni '30 rivisitate in chiave nostalgica, meccanismi narrativi che di servono molto del linguaggio parlato e celano apparentemente le modalità di messa in scena.



L'impalcatura narrativa si regge intorno ad una Mia Farrow mai come in tale ruolo tanto naif ed angelica, giovane donna bistrattata da un marito in preda all'alcool e alla disoccupazione. È il cinema l'unica via d'uscita per la protagonista Cecilia, ansiosa di lasciar da parte le delusioni e le fatiche del quotidiano sopravvivere in tempi di depressione economica. Il nutrimento da celluloide produce esiti imprevisti, fino all'evento destabilizzante dell'attore del grande schermo che lascia la pellicola per fare il grande passo ed entrare nella vita “reale”, follemente innamorato della stessa Cecilia. Da questo brillante soggetto si articola una prova filmica che diventa saggio sulla possibilità di esistere anche fuori dagli schemi e domandarsi con il protagonista Cosa è finzionale? , forse ciò che è perfetto? Ideale? Ciò che è fedele ad una giustizia limpida e non soverchiabile?

Se la figura di Cecila è un richiamo e forse un omaggio ai deplacé, individui fuori posto e fuori luogo, esuli e profughi da una situazione in cui non si adattano o non si riconoscono, da una società che impone una netta codificazione dei personaggi e spinge ad una ribellione che si nutre del mettere la testa altrove, nel cinema appunto, nella reverie permanente, più che nel sogno spezzato da un certo orario di inizio e di fine. Il Tom Baxter ( l'attore Jeff Daniels) che, parafrasando le sue dichiarazioni, s'annoia a far sempre lo stesso personaggio, ha voglia di “guardarsi intorno”, è il rovesciamento di una certa linea attoriale più vicina al teatro che al cinema popolare, quella, per intenderci, del Carmelo Bene che fa di tutto per non recitare una parte ma piuttosto “mettere in scena se stesso”, istanza urgente ed evidente già nelle correnti d'avanguardia d'inizio secolo, tutte tese a rinnegare la linea maestra del personaggio già prescritto, ed a far piuttosto della propria vita un'opera d'arte.

Attacco non mediato alla metafisica e all'idealismo, l'impasse che si crea al momento di scendere dal piedistallo della finzione, quel non comprendersi tra la donna e il divo della finzione su chi possa essere il creatore, della storia o della Storia, porta il personaggio fuoriuscito ad attribuire il lavoro d'aver creato il mondo agli sceneggiatori, rendendo così non troppo azzardato pensare a qualche inconsapevole precursore di tale professione come plasmatore di tutto l'orizzonte religioso che ci circonda, ideatore della “ragione del tutto”. E poi quel pensare alla vita come “ a movie with no point and no happy ending”, ricongiunge Allen a tanti discorsi cari ai surrealisti: "Tout porte à croire qu’il existe un certain point de l’esprit d’où la vie et la mort, le réel et l’imaginaire, le passé et le futur, le communicable et l’incommunicable, le haut et le bas cessent d'être perçus contradictoirement." . (Andre Breton, Secondo Manifesto Surrealista, 1929).

Fino al punto cruciale, che è la riconsiderazione del tutto, al netto d'ogni pregiudizio, l'interrogazione sull'opportunità d'avere un punto di vista non troppo fisso. Ecco alcuni stralci del dialogo tra gli attori costretti a rimanere dentro lo schermo, senza potere evacuare da quel loro ruolo:

What if all this is merely semantics? - How can it be semantics? - Well, let's just readjust our definitions. Let's redefine ourselves as the real world... ... and them as the world of illusion and shadow. You see? We're reality, they're a dream.

Un cinema congegnato come meccanismo che si nutre di passaggi, di trapassi, di attraversamenti, di stili, di generi, di dimensioni, che gioca sull'equivoco del mondo perfetto e sul percorso fatto di inciampi inspiegabili che è quello proprio della quotidianità. Andando oltre Il riferimento più celebre e più puntuale, Alice che attraversa lo specchio, il Don Chisciotte Di Orson Welles in lotta contro le armate proiettate sullo schermo bianco di un cinema di provincia è forse il milgior esempio cinematografico di autoanalisi. Il film si insedia dentro il metagenere del cinema ( solitamente più vicino alla comedy) che parla di se stesso e riflette sulle sue condizioni di esistenza e sussistenza, sull'intricato rapporto spettatore-schermo, ed ha antecedenti celebri come Sherlock Junior (1924) di Buster Keaton, Hollywood or Bust (1956) di Frank Tashlin, con Jerry Lewis, ed ancora Hollywood Party (1968) Blake Edwards, senza dimenticare filiazioni più o meno dirette come Pleasentville (1998) di Gary Ross, Essere John Malkovich (1999) di Spike Jonze o il recente La Science de reves (2006) di Michel Gondry Inoltre il carattere metalinguistico del discorso percorre buona parte della filmografia del cineasta americano, da Zelig a Stardust Memories fino a Celebrities. Un discorso già ben solcato, insomma, con qualcosa in più: è per una volta il fantasma dell'oggetto sognato che viene da noi spettatori, è lui ad attraversare lo schermo per primo, sovversione carnevalesca ovvero ribaltamento inaudito dei ruoli tra desiderante e desiderato. Non si tratta di un film convenzionalmente onirico, ma di un'opera ben più perturbante, in cui si crede possibile e naturale il passaggio da un lato all'altro dello schermo. Si erra intorno all'espansione psicologica di uno spettatore di uno spettatore avvolto nella più grande fascinazione, l'immedesimarsi con le figure impresse su celluloide e la dimenticanza di quella distanza di sicurezza (?) con il meraviglioso artefatto del cinema che in apparenza ci conserva “sani”.

The real ones want fictional lives, the fictional ones want real lives.

Restano tuttavia degli accorgimenti stilistici ad evidenziare la non completa indistinguibilità tra una dimensione e l'altra, il colore della realtà ed il bianco e nero della finzione, l'abito scenico del protagonista Tom Baxter, che rimane immutabile e non deteriorabile, gli spassosi equivoci sul sesso con o senza dissolvenza; ma il margine tra attore e personaggio tende ad assottigliarsi, insieme alla sparizione paventata o ben attesa del cinema come esotismo, del ”andare altrove”, mettere in stand by il cervello per un paio di ore e poi tornare rigenerato alle faccende quotidiane. Superare la bidimensionalità che è piattezza di vedute, e tuttavia non scordarci del rischio di recedere a quell'uomo ad una dimensione che ha reso celebre Marcuse, il quale ha bene evidenziato come nella società post-industriale predomini un generale conformismo, anche nella presunta dichiarazione di libertà dell'individuo, invero incapace di un pensiero che non sia semplicemente modellato sulla realtà esistente, bensì capace di opposizione critica e di una visione non soggiogata al regime del produrre consumare sprecare, e non avvolta nel vortice di falsi bisogni .


Dopo il classico, racconto che segue una lineare cronologia degli eventi senza scossoni o labirinti interpretativi destabilizzanti, ma successivo anche alla corrosione di questa illusione narrativa che Godard ha inaugurato con le operazioni dichiarate di montaggio non naturale di À bout de Souffle (1960), Purple Rose of Cairo è un lavoro post-moderno, nel suo delinearsi come ricostruzione di un film di genere (commedia in questo caso), cosciente di arrivare in un'epoca in cui tutto è già stato decostruito e rivisitato. Woody Allen si piazza in un anfratto sospeso o forse ormai alimentato dalla sola nostalgia di un esperienza non più replicabile, quella dell'identificazione. Il cinema d'autore infatti lavora ormai dichiaratamente sulla decostruzione e sullo spiazzamento, sul gioco delle attese deluse e dei meccanismi rivelati: ed il cinema industriale, macchina spettacolare per eccellenza è una parodia di generi che si situa troppo lontano da ogni percorso quotidiano (si veda ad esempio Sweeney Todd, o Io sono Leggenda). Pastiche e melange di suggestioni diverse, il suo cinema dissemina elementi di semantica filmica dentro una impalcatura che si finge tradizionale, ritorna più volte su se stesso riproponendo sequenze identiche o alterate dalla contingenza della storia, gioca a mimare il meccanismo di funzionamento del nostro pensiero, con la sua attitudine a girare intorno, con insistenza, ai pochi momenti di luce che percorrono le nostre giornate.
Il film che continua la sua vita anche dopo la parola fine, come i quadri di Pollock che continuano a trasudare vernice anche cinquanta anni dopo il gesto creativo del pittore, eco di quella volontà a tratti utopica di garantire una organicità autonoma all'opera d'arte, sentire il respiro, non avvertirne mai il decesso, garantendosi piuttosto un rapporto che è continua, ostinata, produttiva dialettica tra l'uomo e la sua creazione. Alla fine del film Cecilia si decide ad abbandonare definitivamente il marito e la grigia vita senza emozioni per volare ad Hollywood insieme a Gil Shepherd (ancora Jeff Daniels), l'attore che ha creato il personaggio di Tom Baxter. Ma giunta con la valigia e tutto il suo entusiasmo all'ingresso del cinema, luogo stabilito per l'incontro decisivo, nessuno ci sarà ad attendere la povera Cecilia.Con le valigie si potrà allora entrare solo in sala, per iniziare un altro viaggio, ben comodi sulla propria poltrona.

"Che cosa dobbiamo fare con le nostre immaginazioni? - si chiede Giorgio Agamben in un suo prezioso libricino - Amarle, crederci a tal punto da doverle distruggere, falsificare (questo è, forse, il senso del cinema di Orson Welles). Ma quando, alla fine, esse si rivelano vuote, inesaudite, quando mostrano il nulla di cui sono fatte, soltanto allora scontare il prezzo della loro verità, capire che Dulcinea — che abbiamo salvato — non può amarci."

L'abolizione delle frontiere tra reale e virtuale forse c'è stata, facilitata dalle innovazioni tecnologiche del Novecento, ed accelerata in modo brusco dalla televisione e dai new media, ma forse, aderendo al pensiero di Jean Baudrillard, non si è andati nella giusta direzione, e più che aver compiuto una conquista, abbiamo provocato una sparizione: quella della realtà.

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lunedì 14 luglio 2008

Pena di morte

di Salvatore Tigani



- Al tuo perché hanno dato la pena di morte?
- Quello stronzo mi è entrato in casa, ha violentato mia moglie, le mie figlie, mi ha picchiato, ha sgozzato il mio cane, mi ha tagliato il pene e dopo averlo usato per disegnare una svastica sui muri me lo ha messo in bocca, mi ha pisciato addosso, mi ha cosparso di cherosene e mi ha dato fuoco, poi ha violentato ancora mia moglie e le mie figlie, ha mozzato a mia madre un dito e lo ha usato per scrivere dei versi satanici sul pavimento, ha eiaculato sul letto matrimoniale, ha cagato sul tavolo della cucina e se ne è andato portandosi via tutti i nostri gioielli e risparmi.
- Al tuo perché?
- È rom. Ah, e poi mi ha rubato il portafogli.
- Che bastardo!
- Già.

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venerdì 11 luglio 2008

Cellulare

di Salvatore Tigani


1. La suoneria migliore è quella che non trilla in pubblico.
2. Non a tutti interessa sapere cosa hai detto al tuo ragazzo, l’altra sera, in pizzeria.
3. Anche se hai chiamato tu, non è detto che il tuo interlocutore gradisca stare al telefono con te per tutto il tempo che vuoi.
4. Ogni tanto, comunque, cambia orecchio.
5. Prima di rispondere e dopo aver chiuso evita di chiedere scusa agli astanti: non si sentiranno presi per i fondelli.

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giovedì 10 luglio 2008

Poesia ladra

di Salvatore Insana









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mercoledì 9 luglio 2008

Biancaneve non è illibata

di Licia Ambu



La voglio come Biancaneve come i sette nani R. Vecchioni
A cosa pensa Biancaneve? Nessuno lo sa. D. Barthelme
Lo sai perché si chiama il sogno americano? Perchè si avvera solo quando dormi. Il guru


Kim Herzinger, nella prefazione a The teachings of Don B, dice a proposito della scrittura di Barthelme: “È incategorizzabile. È così incategorizzabile, in effetti, che la sua incategorizzabilità è praticamente la prima cosa che uno nota”.
In effetti c’è un che di surrealista in Barthelme. Ci si ritrova di fronte una Biancaneve anticonformista, rivisitazione postmoderna dell’eroina dei Grimm, che al confronto splende di un candore talvolta noioso. Da quell’esempio d’impeccabile purezza che ci hanno inculcato madri esauste nel pre-nanna, ritroviamo una fanciulla piena di premure verso sé stessa, che rimira lo specchio solo per contemplarsi il seno (che sia già certezza assodata la questione del reame?) e condivide lo stesso tetto con sette omini arrapati dai nomi pronunciabili, vivaddio. I personaggi sono sagome al limite del possibile, caricature logorroiche che parlano un linguaggio ricercato, aprendo scenari da teatro dell’assurdo ad ogni battuta, con quel sostrato di cinismo e parodia resi da una magistrale immediatezza di linguaggio e un’anarchia insolita della trama.


E allora, non si capisce (davvero?) come sia possibile un esilio tale, Barthelme nascosto e introvabile, seppur ammirato e venerato da Wallace e lo stesso Carver. Allo stesso tempo, va detto, spietatamente ignorato dal grande Truman Capote: “…non riesco proprio a sopportare Donald Barthelme, e non ho mai letto nessuno che scriva, anche vagamente, come lui”, il che lo accredita ulteriormente, se solo si considera l’abituale vena critica di Capote.
E sì, smentiamolo questo luogo comune, perché in fondo noi lo sospettavamo da tanto, ed ora finalmente ne abbiamo la certezza, anche Biancaneve va dall’analista e mentre attende il principe azzurro (un fesso, naturalmente), non se ne rimane a casa inerme, ma fa pratica sessuale con i coinquilini, rigorosamente nella doccia, o con l’analista stesso. Indipendente, baciata da un quasi totale disinteresse per il giudizio altrui, spaesata e impulsiva. È una donna enigmatica quanto basta e si dedica alla scrittura, specialità: poesie erotiche. Biancaneve non rammenda nell’attesa, ma sperimenta, si lancia in voli pindarici inconsci, sogna. La vediamo quasi eroina burlesque, esteticamente nevrotica, tinte forti nero corvino su bianco latte, farsi strada ondeggiando nella metropoli odierna con i suoi cattivi, le sue ombre, i suoi prodotti estremi. I nani sono sempre sette, lavoratori precari, dediti ad attività talvolta illecite ed alla produzione di omogeneizzati cinesi. La critica intelligente, dispensata in ogni parola, una melodia, voce di qualcosa che smentisce la realtà in cui vogliono farci credere. Casa e chiesa è fuori moda. Che è poi, pura contestazione di quel sogno americano tanto declamato, self-made man (e woman?), che ovunque può arrivare se solo possiede volontà a sufficienza. Ma questo c’era una volta… perché Biancaneve non per forza mangia la mela, a volte preferisce vodka Martini con ghiaccio e adesso, finalmente, può scolarselo.

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lunedì 7 luglio 2008

Patti Smith, la vita segnata e quella sognata

di Salvatore Insana


I was lost, and the cost, and the cost didn't matter to me. I was lost, and the cost was to be outside society.

Una lunga onda nera potrebbe colpirvi mentre nuotate nell'aria di Parigi di questi tempi: la caleidoscopica presenza di Patti Smith è reperibile sotto diverse sembianze nei dintorni della Fondation Cartier. E qui è soprattutto la Patti fotografa, disegnatrice e poeta maudite a esser messa in mostra, rivelando gli altri lati creativi di una figura nota soprattutto per la sua carriera da trascinante ed anarchica rocker della musica americana.

Visitando l'esposizione si entra in una rete di connessione di larga vastità. Una rete che non è una trappola ma un punto contatto con l'universo multiforme d'una artista totale. Una mostra che è più una visita a domicilio in un ambiente ricreato con minuzia ad immagine dei contorti e soffusi ambienti in cui vive lo spirito creativo di Patti. Un pezzo alla volta si tenta di ricostruire il mosaico non lineare e non apollineo. Un collage che nasce, per sua stessa ammissione, dalla volontà di comunicare che la pervade fin dall'adolescenza. La larga rassegna di Polaroid in bianco e nero, “relitti della mia vita passata, ricordi dei miei vagabondaggi”, è contornata da un apparato scenografico di forte impatto, con oggetti, ormai reliquie, dei percorsi compiuti dalla Smith alla ricerca dei sui miti (tra cui le pantofole del caro amico Mapplethorpe, una pietra raccolta nel fiume dove si uccise Virginia Woolf, ..), con proiezioni combinate e ripetute di frammenti video, di progetti filmici più o meno importanti, tra cui spiccano il corto in 16mm Still Moving, girato con Robert Mapplethorpe nel 1978, e poi frammenti di un lungo docu-film di Steven Sebring, un diario semi-intimo dell'artista girato con un fare artistico che a tratti affascina ed in altri momenti infastidisce. 

Si tratta di Dream of Life, lavoro del 2007. Se fotografare è per lei un atto di libertà per un atto intimo di libertà ( "Sometimes, if I crave silence I turn to my Land 250. The experience of taking Polaroids connects me with the moment. They are souvenirs of a joyful solitude."), disegnare e dipingere è mettersi davanti alle viscere umane, alla giungla che c'è dentro la mente, all'espressione inconscia delle pulsioni interiori, sulla via di altri forti modelli artistici come Jackson Pollock e David Hockney. Viaggiatrice nel tempo, nello spazio e nei linguaggi Patti Smith appare come sacerdotessa d'un mondo nero, tanto buio quanto profonda è la dimensione che vuole raggiungere attraverso le sue diverse proposte artistiche. Un buio che però abbraccia con gioia, con la spinta a muoversi attraverso il processo della scoperta che rende tale ogni artista. A otto anni riceve dalla madre un libro di William Blake, Songs of Innocence. I germi di quello che verrà, nel bene o nel male, si annidano nell'infanzia. E quel libro di un autore che lei stessa definirà incompreso e mal apprezzato ai suoi tempi, costretto a vivere tra la povertà e l'umiliazione, segna inevitabilmente il suo immaginario, indirizzandolo verso quelle figure che per ricerca, per inquietudini, per intensità di passione, sono di certo affini al poeta inglese. I suoi punti di riferimento diventano allora Walt Whitman e Charles Baudelaire, il suo alter ego Virginia Woolf, la poetessa tragicamente suicidatasi sulle rive di un fiume. L'inconfessabile modello la stessa figura di Cristo in croce. Patti va a vedere, a rendere omaggio. Le istantanee formato Polaroid, d'un bianco e nero magnetico e affascinante nella sua poca leggibilità, raccolgono tanti di questi luoghi della memoria. Vive a Parigi alla fine degli anni '60. Sulla via più maledetta della creazione. Sulle tracce di tutti gli angeli caduti prima di lei sul campo di battaglia della più sensibile e creativa umanità corrosa e crocifissa dalla nullificante ordinarietà del vuoto. Un piccolo pantheon di riferimenti dichiarati ed innalzati a guide spirituali. Da Nerval a Baudelaire, da Rimbaud a Renè Daumal, fino ai quasi coetanei Bob Dylan e Jim Morrison e al compianto genio della fotografia Robert Mapplethorpe, cui è dedicata una vera sala funeraria. E poi una gran fascinazione per tombe ed altari di chi l'aveva preceduta sullo stesso percorso di ricerca e perdizione l'accompagna verso il cimitero di Montparnasse e quello di Pêre Lachaise. Una stagione all'inferno, con consapevolezza e volontà d'osare. Il film di Sebring si pone tra il diario in prima persona e la confessione davanti un obiettivo posato nei movimenti e rispettoso dal carisma della regina del rock americano. Patti Smith traccia le tappe più significative della sua vita, tesse la tela delle relazioni intellettive ed affettive che l'hanno attraversata, con saggezza orientale s'approccia all'esistenza definendola una serie di fortunati e sfortunati momenti. 

Ripassa meditante sui luoghi dismessi e quelli a parte, Coney Island o ancora i cimiteri, la casa dei genitori, lo struggimento per le morti eccellenti, quella del marito e quella dello stesso Mapplethorpe. Ne emerge un ritratto intimo d'una poetessa, icona della controcultura americana, con William Burroghs come padre spirituale, Allen Ginsberg come amico, Gregory Corso come beat-poet preferito. Attivamente impegnata nel ricordare quanto la sua terra sia ben lontana delle bassezze del malgoverno Bush, Patti non si è fermata mai al primo accenno di gloria. Ha proseguito a cercare, dalla parte di tutti i “neri” del mondo, i discriminati o gli abbandonati della società, gli incompresi, i dimenticati. Quello che le manca, a tratti, è il fatto di dimenticarsi d'essere un'artista. O il volerlo troppo esserlo. Crearsi un percorso che la faccia rientrare nella storia di quell'arte che ama e che segue, è forse un peccato di eccessiva intenzionalità, di ambizioso orgoglio. Ma scegliere una strada è cercare un senso, è aver la soave illusione d'averlo trovato. Una solennità troppo palese per non cadere nella recitazione della solennità stessa, nell'atto teatrale manieristico.
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venerdì 4 luglio 2008

Ascoltare il lettore mp3 in pubblico

1. Se canti, ricorda: la gente non può sentire la musica.
2. Se balli, il fatto che la gente non può sentire la musica è irrilevante: anche se la sentissero          chiamerebbero ugualmente la neuro.
3. Se devi chiedere o fornire una informazione a un passante, togliti gli auricolari, o danneggerai  anche il suo udito, urlando.
4. Se ti domandano cosa stai ascoltando, non mentire: potrebbero chiederti di fargli sentire.
5. Se stai ascoltando la Tatangelo, rischia, e di’ che si tratta di musica classica.

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giovedì 3 luglio 2008

Linea 13

di Salvatore Insana



La linea tredici è sovraffollata, piena di intoppi e d'incidenti, additata persino da quei professori che arrivano attardati in aula come superstiziosa testimonianza del potere negativo che il numero in questione possiede per tutta una tradizione popolare. Per due volte ho già visto passeggeri senza fiato esser portati a braccia da qualche volenteroso fuori dalla calca di pendolari, involontaria recita di un'altra passione, di un altra pietà, con diverse circostanze, difforme sacralità, ma molto vicina postura di un corpo esangue e muto, a pochi passi dall'eterno riposo, come tutta una iconografia cristiana ci ha trasmesso...Per due volte un'altra corsa si è arrestata. Una collisione, una treno in panne, una momentanea vacanza del sistema di segnalazione, i problemi più ricorrenti.


A tratti percepisco e concepisco le carrozze metropolitane alla stregua di un organismo vivente: queste macchine si nutrono di noi passeggeri, si riempono, si svuotano, si surriscaldano, si ammalano, aprono le bocche per fagocitare nuovi utenti, accelerano la corsa, gareggiano in velocità, a volte rimangono tentennanti, percorrono senza nulla eccepire le medesime rotte ogni giorno, ogni ora, fino all'usura definitiva e fatale, la rottamazione finale che il progresso ha già in conto di esigere per loro. Creature che respirano.

Ci si chiede come possa una intera città reggersi in piedi ed in gran forma con tali grandi bruchi, che dal 1900 a oggi si sono moltiplicati fino a costituire un piccolo esercito di enormi talpe in forsennato andirivieni tra le 14 linee disponibili; una marcia sotterranea che raggiunge ogni limite spaziale del tracciato di città.

E poi, un'intera casistica interessa il rapporto d'ogni passeggero con l'equilibrio. Come si fa a non cadere? Ci si tiene al palo? Diverse modalità di persistere nel logorante lavoro di bilanciamento della giornata, intontita quando essa inizia, assai più pesante quando si avvia al tramonto. Di solito, nel regno metropolitano, a confronto con altri sottoboschi sociali di più palese quanto vacuo prestigio – le vie d'alta moda o il palcoscenico televisivo, ad esempio – s'abbassano i tacchi, le pretese, le acconciature; le teste tendono a formare un angolo di novanta gradi con il resto del corpo; ed insieme crescono gli odori e le rughe sulla pelle dei passeggeri. Invece anche in questo ambiente a Parigi si può essere spettatori di una lieta passerella di figure diverse, di una vita non strangolata esageratamente dai ritmi lavorativi. Un utenza molto più diffusa e ben somatizzata nei corpi dei cittadini rende questa terra senza luce solare uno degli incunaboli più fertili d' esperienze d 'incontri.

Je v'invite à prendre des corrispondences si vous pouvez!

Questo labirinto non è altro che un cervello sotterraneo, l'oscuro convogliarsi di tutte le forze e le spinte della città. Avere dei contatti, delle connessioni, delle corrispondenze. Muoversi tra entrate ed uscite, tra salite e discese. Rodersi e consumarsi tra lancette e file d'attesa è un rispecchiamento su larga scala del funzionamento e dell'andamento dei nostri neuroni nella scatola cranica.

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mercoledì 2 luglio 2008

Apa trece, pietrele rămân (proverbio rumeno: l’acqua scorre, la pietra rimane)

di Salvatore Tigani




Dice, i rom vanno rimandati a casa. Occhio per occhio, sì, ma per ogni mio occhio due dei loro. Dice, vengono a fare casino qua, vadano a farlo a casa propria. Zozzoni, meschini, delinquenti. Dice: rubano, fanno l’elemosina, consumano più di un Suv e sporcano peggio che un cane. Vengono via mare, e ci restano. Ecco, dice, pure per loro, dice, non è meglio se restano a casa? Hanno l’ottanta per cento in più di possibilità di non morire in mare, se il mare proprio non lo prendono.


E poi si ricorda le badanti e fa: no, eh, io il culo a mio nonno non lo pulisco. No, non lo voglio proprio imboccare tre volte al giorno. La badante di mio padre, dice, quella sì che conferma la regola. Cazzo, ci sono rom e rom, come dire, figli della gallina bianca e figli di quella nera. No, forse no, che se fosse un problema di colore, diremmo, ehi, tutti i neri qui, gli altri a casa (viceversa no, altrimenti ci prendono per razzisti). È difficile capire, se un clandestino è in Italia da tanto, da poco, da ieri, da oggi o da domani. Beh, risponde, glielo chiediamo: da quando sei qua? E il clandestino, che oltre ad essere clandestino è anche scemo, risponderà la verità.

E poi gli ricordano che anche gli italiani una volta partivano in cinquemila su una bagnarola che ne poteva portare cento, di esseri viventi mica di esseri umani, ed il viaggio allora era oltreoceano, poco poco più lungo. Gli italiani, pure noi siamo morti da clandestini, pure noi ci hanno rispediti a casa, e allora, che cavolo, ora ci vendichiamo. Dice.
Rom, li fanno pure giocare a pallone, che tristezza, hanno la cittadinanza, almeno quelli, sì, rumena, che, ogni tanto qualcuno gli ricorda, che rom e rumeno non sono proprio sinonimi. Ma chissenefrega, dice, tanto puzzano uguale,e stuprano, rubano, chiedono l’elemosina! Se non ci fossero mai stati, i rom, dice, che Italia sarebbe! Sarebbe un’Italia, pensa, in cui avrebbe dovuto inventarsi un’altra cazzata per farsi votare. Ne muoiono troppi ogni giorno in mare, mentre inseguono il “sogno italiano”, portati a fondo dalle correnti, ripescati a volte dalle guardie costiere; seppelliti quasi mai coi propri cari, sempre con le proprie speranze. Nessuna lapide, per loro, solo acqua.

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martedì 1 luglio 2008

In loving memory

di Licia Ambu


Monumentale. In senso atmosferico. Quando si prova a immaginare quel silenzio da cui a volte nasce la poesia. Spesso quello che dobbiamo cercare dentro di noi, faticosamente. Qui è casa sua. Ti viene paura di romperlo con un respiro e cerchi di trattenerti. Immerso tra la storia di Roma in ogni cardine, una sorta di giardino ricavato dove il tempo si è fermato.Qui, senza limiti nella storia delle parole, dormono umanamente silenti le spoglie di molti artisti, scrittori, liberi pensatori, anche quando liberi sembra impossibile esserlo. Si cammina tra le fila di monumentali lapidi, ognuna con una propria storia, ognuna con vita e significati.


Naturalmente, in questa particolare occasione possiamo rendere lode alla chiesa cristiana, che non concedendo accesso alle anime defunte di protestanti, ebrei, ortodossi, suicidi e attori, ed esiliando le loro spoglie fuori dalle mura, ha in qualche modo contribuito all’edificazione di questo paradisiaco cortile dei dormienti. Successivamente cinto, dopo il 1817, in seguito ad una richiesta di Prussia, Hannover e Russia. Un sapore romantico per chi è estraneo ai dogmi della maggioranza. Ciò spiega anche l’ingresso di alcuni esuli della cultura nostrana tra tanti stranieri, alcuni dei quali noti, altri meno. Suolo sacro e libero, abitato da guardiani particolari, quali solo i gatti possono essere in tale occasione, conferendo un’ideale mistica e lunare ambientazione. 

Camminano o dormono al sole o all’ombra del giardino, a volte ti accompagnano, ti scortano per i sentieri, tutti uguali e tutti diversi.
Qui dove il dolore non si esplicita in forma rituale, ma poetica e passionale, con storie d’amore e amicizia che si rincorrono sulle lapidi e si richiamano. Appena sopra la collina, L’angelo del dolore, un monumento che lo scultore William Wetmore Story, scolpì in memoria e amore della moglie. Indescrivibile per realismo e bellezza. Gadda, Gramsci, Keats e Shelley e molti altri, esuli in vita e in morte e in vita e in morte indimenticabili e diversi.

« This grave contains all that was mortal, of a young english poet, who on his death bed, in the bitterness of his heart, at the malicious power of his enemies, desired these words to be engraven on his tombstone: Here lies one whose name was writ in water »

Poco distante:

Keats! Se il tuo caro nome fu scritto sull'acqua, ogni goccia è caduta dal volto di chi ti piange.
In loving memory.

Via Caio Cestio, 6
00153 Roma
Tel/Fax: 06 5741900
Lunedì-Sabato 9:00 – 17:00
Domenica e festivi chiuso
Ingresso gratuito

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lunedì 30 giugno 2008

Amelie, un'evasione perfetta

di Salvatore Insana




Un'evasione perfetta: apprese le misure necessarie per farsi beffa di un reale infausto e scomodo, faticoso e troppo freddo, Jeunet strangola l'illusione di verosimiglianza e costruisce una favola che naviga beata nell'universo atemporale della migliore finzione possibile. Le fabouleux destin d'Amelie Poulain avanza accattivante e fresco tra gli spazi cosmici delle menti più sognanti.
Il film ha un impianto favolistico ben marcato, con la voce narrante che apre e chiude le parentesi del reale, impiegando un tono di sobria ironia nel narrare le vicende incrociate d'una piccola donna e del contesto che le gira intorno, quello più prossimo e quello tanto vasto quanto vago della Parigi contemporanea. Tuttavia il motore delle azioni si smarca da una totale fiducia nelle potenzialità umane, e ad affida al destino, al Fato, all'incrociarsi causale ed insieme casuale degli eventi, la progressione della narrazione. La Storia passa impietosamente sul tuo corpo, come quelle ruote d'automobile che schiacciano senza patemi il corpo del piccolo passero appena poggiatosi sull'asfalto. Un suicida piomba sulla testa della madre d'Amelie, segnandone la morte improvvisa. Il padre trasferisce tutto il suo amore su un nano da giardino, trascurando la piccola figlia.
Amelie si costruisce il suo mondo ideale.



La spinta surrealista tanto cara al cinema francese è qui in quel cercare i dettagli inavvertibili, nel sorvolare la superficie delle cose per congiungersi con qualcosa che potrebbe andar oltre le apparenze. Continui rilanci ad una dimensione altra permettono di varcare le soglie e finire nell'immaginario, nell'immaginato. Una sorta di escapismo addolcito permea le vicende mentali d' Amelie. Proiettarsi altrove per dimenticarsi del presente. È chiaro che il sognare di Jeunet è quello meno rivoluzionario, più borghese e ordinato possibile. Riconoscendo la specificità del cinema come medium prettamente visivo, il regista dà netta predominanza al visivo: sono le immagini, ed i ritmo che si instaura tra di esse e dentro esse stesse, il principale mezzo di significazione.

Ed è fortissima la ricolorazione significante dell'intero decor scenografico, in aperto omaggio alla scuola impressionista di fine Ottocento, quella del Renoir oggetto feticcio d'uno dei vicini di casa d'Amelie, quella di Derain e d'un certo Cezanne, già ben oltre la semplice impressione e più prossima ad una traduzione coloristica psicologica e personalissima delle immagini catturate dalla retina. Jeaunet, insieme alla scenografa Aline Brunetto ed al direttore della fotografia Bruno Delbonnel, ha tradotto l'universo mentale della sua creatura in quadri che ruotano intorno a quattro colori, utilizzati in tinte molto intense, oscenamente nutrite di forti contrasti: rosso, giallo, verde e blu dipingono Amelie di connotazioni difformi dal grigiore del reale, assegnato al resto del mondo, la parte monocorde del sociale che risulta totalmente indifferente alla nostra sognatrice.



Oltre la favola, l'opera lascia sorprendentemente trasparire uno sfrenato gioco metalinguistico.
Il volto d'ingenuità fascinosa e dal sorriso ammiccante d'Audrey Tautou è il volto della macchina da presa. Notando bene, Amelie, depossedé d'elle meme, pourtant si sensible au charme des petites choses de la vie, non fa che guardare, ad una distanza che si situa in un punto intermedio tra chi è spettatore di se stesso e chi pone la visione come punto di partenza dell'azione. Il suo sguardo è quello dell'estatica curiosità dell'operatore che riprende il reale cercando di catturarne l'essenza, i suoi occhi sono quelli del più attento e più avido osservatore in attesa di carpire il segreto ed il fascino delle piccole cose. Gli occhi di Amelie sono pupille spalancate su un orizzonte sconosciuto, quello del reale da lei sempre trasfigurato. Così è che vediamo in azione un alter ego del regista o del dispositivo cinematografico stesso, davanti uno schermo televisivo, in sala, dietro la finestra, dietro le lenti di un binocolo, appena visibile dietro una tendina in stazione, nel buco di un muro, al centro del grande panorama di Montmartre. E cosa si compie insieme all'atto di guardare? L'oggetto della visione viene studiato attentamente, a volte spiato di nascosto. La scopofilia, pulsione che pervade tanto la macchina da presa quanto lo spettatore, è qui vera protagonista, moltiplicando le azioni di Amelie con quelle degli altri personaggi, a loro volta alle prese con cannocchiali, binocoli, visioni rubate da una finestra. L'autore poi dissemina tracce del suo ruolo creativo in tutte le figure in scena. Amelie agisce come un piccolo Dio-angelo regolatore del mondo che la circonda. Fa squillare i telefoni a comando, fa riconciliare un uomo con la sua infanzia, fa da bonaria vendicatrice sabotando l'appartamento dell'ostile fruttivendolo, fa risolvere l'enigma delle foto fantasma all'amato E. Ma se il suo ruolo da vero regista della scena le riesce con gran maestria, non la stessa cosa accade quando tenta di regolare se stessa. A tu per tu con timidezza ed orgoglio, s'arena nella paura e nell'inazione. Non si può fare il Dio di se stessi senza riempirsi di dubbi prima dell'atto creativo stesso.

La spensieratezza atemporale dell'opera, si fa al contempo racconto di fantasmi: chi ripete per venti volte lo stesso quadro, chi ritrova una lettera dopo 30 anni, chi ritrova la scatola dei giochi dell'infanzia. Il passato si riversa su un presente che non c'è. Ognuno ha il proprio universo personale di riferimento. Ognuno trova un appiglio che faccia tralasciare l'attualità. Così il collezionare foto-tessera, pietre raccattate per strada, o semplici tracce su terra è un esorcismo ben chiaro del tempus fugit che ossessiona anche chi non riesce a confessarlo. Ma poi, in piena regola con i meccanismi favolistici, ed in barba ad ogni violenta constatazione della durezza della vita quotidiana, come ha scritto Anthony Dufraisse, il film diventa uno dei pochi recenti messaggeri di un cinema troppo raro, quello della speranza.

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sabato 28 giugno 2008

A un matrimonio



1. Non è un film, d’accordo, 
    ma evita lo stesso di guardare in camera.
2. L’organista non accetta canzoni a richiesta.
3. Se la sposa è il tuo amore di sempre, spaccia le lacrime 
    per commozione e fatti consolare dalle damigelle.
4. Quando il prete recita la formula del parlare ora 
    o tacere per sempre, fa per dire.
5. Durante il lancio del riso, però, mira ai capelli.

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giovedì 26 giugno 2008

Benedetto, Silvio

di Salvatore Tigani




Berlusconi vuole la comunione. E non la vuole così, sottobanco, in maniera, diciamo, clandestina. Come quando ti danno il resto sbagliato, una decina di euro in più, e tu dici, vabbe’, chissenefrega. Berlusconi la vuole regolare; insomma, col permesso del papa. La vuole firmata e controfirmata, col bollino iso9001, certificata. Fa la lotta alla contraffazione lui, pure. E quando il prelato gliela porge non dice solo, no, non la posso accettare, grazie uguale, Silvio rilancia: perché non darla a me e a tutti i divorziati? Siamo nel 2000, cribbio, aboliamo qualche vecchia legge, che dici, Benedetto?


E noi di colpo ci ricordiamo, o forse per la prima volta apprendiamo, che il premier ha una ex moglie. Su suggerimento di un editorialista recuperiamo la vecchia biografia, quella spedita a casa degli italiani uno per uno, salvo comunisti tesserati qualche tempo fa, e ivi leggiamo dell’amore evoluto poi in sincera (o grande o preziosa o chi si ricorda) amicizia. Gran comunicatore, il presidente. Il papa, dal canto suo, avrebbe potuto rispondere sì, come no, di leggi ad personam ne hai fatte tante tu ora te ne faccio una anche io. Ma qui, più che il solito scandalo à la Berlusconi, si rischiava un altro scisma e di questi tempi non ce lo si può permettere, ché i sondaggi lo danno, il papa, a livelli di popolarità inferiori a quelli di Veltroni. Quindi, per ora, niente da fare: Silvio berrà il vino e spezzerà il pane alla propria tavola, coi monsignori anche, gli stessi che non potranno mai ricambiare l’invito. Se Berlusconi chiede, però, Benedetto – o sì o no – risponde. Ed ecco il bel discorso sul divorzio, il matrimonio, l’abbraccio accogliente della chiesa ai divorziati, eccetera. Riassumibile, volendo, in un sms: “Silvio, lo sai ke tvb, ma x qst storia della comunione nn c pox fare nt. XD, J.R.”.

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mercoledì 25 giugno 2008

Gemellaggi e rivalità

di Paolo Vaccaro




"Fine settimana o infrasettimanale, già da ragazzino allo stadio per tifare... Con gli altri ragazzi tante voci un solo cuore: difender la tua curva con coraggio e con onore. Quante mattinate a preparare gli striscioni, le coreografie, sciarpe, torce e bandieroni… ma ciò che conta per davvero? Aspettare l’avversario appena giù dal treno”
In questi ultimi tempi si sente parlare sempre più spesso di forti rivalità ed accesi confronti che, non di rado, sfociano in episodi di violenza e scontri tra opposte tifoserie. Niente viene detto, invece, di quelle tante volte che i tifosi partono insieme, cantano insieme, scambiano ricordi, gioie ed amarezze. Insieme.


Amicizia e rivalità fanno la loro comparsa all’interno del pensiero dei tifosi intorno agli anni ’70, periodo di generale tensione sociale ed influenza politica, in conseguenza del ’68. Tale clima di incertezza arriva anche dentro le curve italiane, con i tifosi che vestono simili ai militari e con i cori delle canzoni che riprendono i motivi delle contestazioni e delle proteste. Le prime amicizie e rivalità nascono sotto la spinta dell’ideale politico.
Gli anni ’80 e ’90 segnano l’esportazione del modello italiano in tutta l’Europa, dai Paesi Latini alle Repubbliche Jugoslave: i tifosi si posizionano nel settore più popolare, la curva. Questi sono anche gli anni dell’inasprimento delle pene contro gli Ultras “facinorosi”, rei di scontrarsi spesso e volentieri contro tifoserie rivali. Comincia l’impegno, l’uso e l’abuso delle forze dell’ordine negli stadi, per “arginare il fenomeno”, ma che invece ha favorito un’altra e più sentita rivalità. Tra tutti i tifosi c’è un rapporto di indifferenza e di grande rispetto perché “si vive lo stesso ideale”. Ogni sostenitore, però, ha una squadra da odiare, spesso della stessa città o regione. Esistono rivalità nate per ragioni sportive ed altre createsi per la condivisione di uno stesso obiettivo, che sia uno scudetto o una retrocessione. Oppure, sulla scia degli anni ’70, la rivalità è prettamente politica: “mentre i giocatori danno calci a quel pallone, sulle gradinate sale alta la tensione; cori, insulti, grida e minacce avvelenate: ci si vede fuori e quando uscite non scappate”.

La condivisione di uno stesso modo di intendere il tifo organizzato, al contrario, porta tifoserie diverse ad unirsi e sostenere insieme, per rispetto di un’amicizia. Anche i gemellaggi nascono negli anni ’70 e la maggior parte di essi ancora esiste, anzi, il legame si è rafforzato col tempo. Amicizie che vanno anche oltre i confini nazionali, un fenomeno più dilagante di ogni stereotipo, tanto che la violenta Italia vanta il più alto numero di gemellaggi. Sostenitori di colori diversi che si uniscono sotto un comune vessillo. E’ il caso di Napoli e Genoa, che hanno festeggiato insieme la promozione in serie A, Bari e Salernitana, Atalanta e Ternana, Fiorentina e Catanzaro, o il primo e storico legame tra Vicenza e Pescara. Uniti, insieme oltre ogni distanza. Si racconta sempre di litigi e risse, scontri e tafferugli, mai di come sempre più spesso i tifosi si incontrano prima e dopo la partita per bere birra ed inneggiare goliardicamente alle due squadre; delle “visite guidate” in lungo ed in largo per l’Italia, ognuno con il proprio modo di essere. Per la serie “I colori ci dividono, la mentalità ci unisce”.

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martedì 24 giugno 2008

Le parole nella rete

di Licia Ambu

Ebbene sì. Anche le parole, volatili, sillabiche, mutate, sono cadute nella rete di link. Concatenazioni improbabili o di successo, si avvicendano nei post di blog, di siti e quant’altro. Ma c’è di più. Oltre il diario, oltre la cronaca, oltre la notizia, c’è la parola con il suo valore. Lo scrivere diventa gioco, semantica ludica abbracciata da iniziative che vogliono legare la letteratura fatta di carta a quella fatta di bit. Così pare. Nasce sotto l’egida di Queneau, ad esempio, imperativo emulare Esercizi di stile, il blog firmato da Antonio Zoppetti, zop blog. L’autore ha lanciato una sfida che numerosi hanno raccolto, declinando in molteplici stili diversi uno stesso contenuto, in realtà una variazione sul tema passeggero della rete, dando vita anche ad un volume Blog. PerQueneau?, edito da Sossella.

Dal 2002 ad oggi, i giochi, gli esercizi, le sfide si sono rincorse a colpi di creatività, come il racconto labirintico ispirato a Calvino o i racconti rousselliani, di derivazione combinatoria. Lo stesso schema del prodotto a più collaborazioni è una ricetta gettonata da altri blog, come il neonato Lasciamo una traccia, dove gli interessati si affacciano su un incipit e possono contribuire all’opera. Un po’ come quel gioco che si faceva da piccoli a scuola, quando si scriveva sulla prima riga di un foglio una frase, per poi coprirla e scambiarla con la persona accanto. Via via rispondendo a domande diverse si completava la storia, come dire, pluri-autoriale, per poi leggere il risultato. È certo che l’avvento della rete ha partorito diverse modalità interpretative e creative, possibilità di declinazioni semantiche originali e divertenti. Va sottolineato il fattore collaborativo, là dove un blog intrigante costituisce un passatempo sfizioso, talvolta rendendo fama all’autore/autrice in questione oppure perché abitare un link, un nodo della rete, rende di fatto quell’indirizzo uno spazio aperto e di incontro tra avatar. Con annessi vantaggi di una collocazione spazio temporale determinabile individualmente. 

Un esercito di grafomani incalliti sembra aver invaso costruttivamente lo spazio di navigazione, cambiando anche quello che è il rapporto autore-lettore, in una sorta di partecipazione più viva oltre al vantaggio indubbio di un livello di alfabetizzazione richiesto che si attesta su livelli minimi: un blog non è opera da ingegnere, ma solo forma di espressione personale che usato in maniera costruttiva può risultare anche terapeutico. Citati in proposito: Cribbiosilvio, il blog di satira cooperativa dedicato agli sfoghi di Silvio oppure il blog-diario di Ilenia, Lo scopriremo solo vivendo, che con i racconti impeccabili sulle vicende della coinquilina Mery Terry, ha fatto il giro dell’iperspazio, guadagnandosi un posto di riguardo. Insomma come ogni cosa, nemmeno le parole in rete sono un innesco negativo o positivo, ma solo potenziale, l’importante è come viene usato. Verba volant, scripta manent.

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lunedì 23 giugno 2008

Il tramonto va di corsa

di Salvatore Insana




Finalmente corro ai bordi della Senna. Scopro ad ogni piccolo balzo un frammento sorprendente del mosaico umano che vive nei pressi dell'acqua verde d' alghe e rifiuti francesi. Una coppia in pigiama rosa ridacchia e si coccola. Arabi di misura incerta. Due signore bianche d'abito ed appannate di colorito provano a far jogging a passo lento: si scompongo i loro chignons al mio passaggio. Anche in questo che presumo velenoso esempio di corso fluviale c'è chi tenta di prevenire la chiamata divina verso l'aldilà: tenta di anticipare il destino, pescando tranquillo in riva. Proverà questo coraggioso senza coscienza o senza paura, a servire la morte sul tavolo di cena?


Le panchine, a tratti occultate dagli arbusti di palude, suggeriscono la possibilità di una metafisica anche in questo luogo. Un vecchio viandante piegato su se stesso dorme da seduto, annegando nella lunga barba e celando il volto con un copricapo targato Usa d'un blu scolorito. A breve distanza, quasi in posa statuaria, quasi in versione Gilbert&George, due indiani fumano in compagnia di piccole buste ben comode ai loro fianchi. Guardano nel vuoto e non si parlano.
Baffi inumiditi e volto macchiato dalla fatica, un manipolo di vegliardi in calzamaglia e bastone sorseggia una birra, nella veranda improvvisata d'un bar a prima vista orgogliosamente malsano. Tra le antenne e le parabole, una donna d'avorio nero, occhi infiniti e turbante rosso, cerca di ritrovare il figlio nascostosi nel cortile. Una nuova coppia, di movenze occidentali, costeggia il canale. Un sozzo giovincello da' una bonaria gomitata al padre complice: quella borsetta nera, così sola mentre il fianco di lei lascia spazio alla mano dell'amato, sarebbe la preda ideale! Ma il buon senso lascia che per una volta prevalgano i buoni sentimenti sulla selvaggia lotta alla sopravvivenza.
Evitando le ruote dei velo, intendendo di tanto in tanto qualche scampanellio d'avvertimento, supero i ponti più bui, dove piccoli aggregati adolescenziali in fase turbolenta, con capelli ricci ed abiti rappeggianti, consumano lattine e tabacco al tramonto delle loro giovani speranze. Mentre proseguo il mal di cinema risale in me: ritorno alla prima sequenza di 2001, A Space Odissey, nell'osservare contrapporsi due larghe famiglie, una contro l'altra nell'astio primordiale d'un regolamento di conti. I manganelli nella mano di uno, ed i denti ringhiosi d'un altro sono tenuti a freno, con viva fatica, dai più ragionevoli presenti nell'ambiente, mi allontano prima che veda il sangue colare. C'è della polvere che si alza: si gioca a calcio nel campo di cricket, si gioca a bocce sull'altra sponda, si gioca a far l'amore tra l'ombra e gli alberi. S'alza la fatica, il fiato inizia a mancare. Corro ancora, accelero, infine chiudo gli occhi. Li riapro e posso vedermi macchiato di verde, colorato di rosso, deformato ed affaticato, sullo specchio d'acqua d'un Narciso in pantaloncini, avanza il tramonto parigino.


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sabato 21 giugno 2008

Come vendere qualche centinaio di copie in più

di Salvatore Tigani




Dice che le ha piccole. In compenso però ha grandi mammelle. L’aspetto che dovrebbe terrificare il lettore/elettore/spettatore è la grottesca proporzionalità inversa tra le due parti anatomiche. Se la vostra ragazza non ha seno, vi consiglio, un controllo fatelo. Per scrupolo.


Le ha piccole, molto più piccole del normale, dice. Ma più piccole rispetto a cosa? Va a giocare a calcetto con il calibro? Nelle docce convince i suoi compagni di gioco a mettere i propri gioielli di famiglia sul tavolo e, cavolo, banco piglia tutto? O forse, semplicemente (ed ovviamente), le ha più piccole “rispetto alle mammelle” ed al resto del corpo?

Tuttavia voglio rincuorarlo, dicendogli, davvero, di non preoccuparsi, che se come racconta, da qualche tempo a questa parte, ha almeno tre figli non riconosciuti in giro per l’Italia, allora ha ragione quel vecchio detto che proclama irrilevanti le dimensioni.
Ad ogni modo, una pregunta: se dovesse un giorno scoprire di avere altre sproporzioni, per piacere, tenga la notizia per sé.
Ps: Ecco perché lo chiamano Elefantino.

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venerdì 20 giugno 2008

Tenere un blog

  1. È un diario ma non è segreto: tutto quello che scriverai potrà essere usato contro di te.
  2. Per avere più visite inserisci in un post tutti i nomi di personaggi famosi che ti vengono in mente, Google farà il resto.
  3. Il successo del tuo blog dipenderà per un quarto dalla tua capacità argomentativa, per un quarto dalla originalità dei temi trattati e per metà dal numero di blog amici che commenterai e visiterai quotidianamente.
  4. La tua vita sociale si impoverirà in maniera inversamente proporzionale alla tua vita on-line. E non per forza è una brutta notizia.
  5. Non credere a tutto quello che scrivi.

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giovedì 19 giugno 2008

La top five di Vecchioni

di Paola D'Angelo




Un giorno di lezione come tanti nella facoltà di Scienze della Comunicazione, se non fosse per la presenza di una persona che esce un po’ fuori dalla nostra quotidianità: Roberto Vecchioni. Ormai tutti sanno che da tempo è il docente della cattedra del Laboratorio di scrittura, ma vederlo lì al bar in mezzo ai suoi studenti fa un certo effetto. Ci avviciniamo un po’ intimidite, ma con uno slancio di sfacciataggine ci presentiamo e gli parliamo del nostro settimanale on-line, creazione di studenti squattrinati. Il professore ci sorride e dice di conoscere bene la nostra categoria e, divertito, ci concede qualche minuto. Il tempo a disposizione è veramente poco e l’unica domandache ci viene in mente, ma che può racchiudere il mondo di un cantautore, è:“Qual è la top five di Roberto Vecchioni?”.
Con qualche difficoltà il Professore elenca cinque brani dirara bellezza, che necessitano di essere accompagnati da alcuni cenni storiciper capirne l’importanza.

My way - FrankSinatra. Soprannominato “The Voice” per la perfezione del suo apparato vocale, Sinatra è entrato nella storia della musica popolare americana grazie soprattutto alla sua semplicità e alla grande capacità comunicativa che,agli occhi del suo pubblico, ma soprattutto delle donne, lo ha reso irresistibile. Sicuramente My way è il brano più conosciuto, poteva ripeterlo milioni di volte, ma il riscontro con il pubblico era il medesimo, grazie anche all’attenzione che dava al testo, faceva si che quelle parole risuonassero alle orecchie come mai sentite.

Born inthe USA – BruceSpringsteen. Pubblicato nel 1984, questo brano è stato urlato da tutta una generazione. Per Springsteen fu il ritorno al rock puro, che, tra lafine degli anni settanta e i primi anni ottanta, si era un po’ perso. Racconta la vicenda di un uomo nato e cresciuto negli Stati Uniti, e costretto dallo stato, a combattere per un ideale che non è il suo.

Yesterday – Beatles.Esce nel gennaio del 1964, ed è immediatamente entrato a far parte della storia della musica popolare, per la sua bellezza e per la semplicità delle sue note.Un motivo che non si può cancellare dalla mente. Lo stesso Paul McCartney,unico autore, lo ha definito il secondo miglior brano della produzione beatlessiana (il primo è There and Everywhere), e se lo dice lui…


Nel blu dipinto di blu– Domenico Modugno. L’unico brano italiano nella top five di Vecchioni. Quando ha pronunciato il titolo del brano, spontaneamente il commento è stato: “non poteva mancare; e il prof. Ha aggiunto:”CERTO!” La canzone di Modugno è conosciutissima in tutto il mondo, è diventata l’inno degli italiani all’estero, ma la sua importanza è legata alla rivoluzione che apportò alla musica “leggera” italiana. Nel 1958, sul palco dell’Ariston arrivò un urlo: VOLARE OH OH.La reazione fu di sorpresa, visto che fino ad allora le orecchie del pubblico erano abituate ad ascoltare brani come: Grazie de’ fiori. Allora viene naturale dire: Grazie Modugno!

Like a RollingStone – BobDylan. Storico brano del 1965, contenuto nel capolavoro di Dylan: Highway 61 Revisited. Sono stati scritti fiumi di parole su questa canzone, dall’effetto che ebbe sugli ascoltatori alla rivoluzione radiofonica che apportò, ma il motivo che l’ha resa un simbolo è l’importanza che ebbe nella storia della musica popolare. Dylan con Like a Rolling Stone ha suggellato la nascita del Rock e dell’elettrificazione. E’ più di una canzone, è la rappresentazione dell’inizio di una rivoluzione che di lì a poco avrebbe cambiato il mondo.

Prima di lasciarci il Prof. ci tiene ad aggiungere una cosa:“Non potete morire senza prima aver ascoltato La buona novella di FabrizioDe Andrè”. E allora seguiamo il suo consiglio.

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mercoledì 18 giugno 2008

controcanto - istantanee 3

di Salvatore Insana



Take me to the station
And put me on a train
I've got no expectations
To pass through here again

Once I was a rich man
Now I am so poor
But never in my sweet short life
Have I felt like this before

Controcanto. Quanti sono i clochard di città! Passando da Place d'Italie dopo il tramonto ce ne sono sempre almeno quattro cinque. Un gruppo affiatato, dal tipico odore alcoolico, dal tono scanzonato, dal linguaggio sincopato ed ancora non afferrabile. turistica. A far vibrare le corde logore di un violino, producendo un suono da musica minimale, davanti al Beabourg. A testa bassa sui gradini delle stazioni. Piccoli pezzi di cartone provano a spiegare le loro ragioni. Li si incontra Imploranti qualche centesimo tra i vagoni, in cima alle scalinate della chiesa, all'ingresso d'una moschea. A dormir sotto le pioggia, con una mortale incuria per il proprio corpo. Quando rientro in casa, mi volto ormai con gesto abitudinario sulla sinistra, a salutare con gli occhi quell'omino che si piazza sotto la tettoia del rivenditore Fiat di zona, coprendosi con coperte dal colore smog, una grande busta imbottita come cuscino. Esseri solitari, tristi eppure spesso solidali con chi sembra vivere la loro stessa condizione. Claudicanti e deformi, curvi e schiacciati dal peso dell'ipocrisia altrui.


Dispersi, abbandonati, estranei al traffico ed al travaglio vacuo di chi è sedotto o costretto dal lavoro. Figure anarchiche per eccellenza, carico di mistero è il loro tracciato di rughe in volto, il loro sguardo che va verso un orizzonte già sbarrato o ancora sperato. Si legge in questi giorni sugli schermi informativi ai tornelli d'ingresso. Qualcuno si è gettato tra i binari della linea 6. Si cercano testimoni. Due tra questi mendicanti stavano per azzuffarsi. La postazione di lavoro, se così si può dire, è contesa. L'uno agiva attraverso uno struggente cartellone, esibito tra le mani logore: Vraiment et uniquement pour manger!...cranio rasato, carnagione chiara, basso di statura, volto scavato, alcuni buchi ben visibili tra i denti superstiti. Sguardo cattivo, o meglio inacidito dalla misera condizione cui deve far fronte.
Eppure fuma, eppure parla al cellulare. L'altro era fornito di volantini di un verde ormai stinto che tentava di porgere con sguardo non troppo implorante agli automobilisti in attesa al semaforo. Più robusto, forse di origini arabe, barba incolta, cappellino sozzo in testa. È lui adesso a padroneggiare il posto: sarà arrivato in anticipo sui contendenti stamattina. Quando anche l'altro prova a reclamare i suoi diritti di povero, il primo inizia ad emettere dei versi non conosciuti, alza la voce, ed minaccia di gettare dal cavalcavia assai prossimo alla rue di lavoro il suo concorrente. Sembrano entrambi professionisti esperti ed evidentemente consumati. È un vero impiego questo allungare la mano per raccattare pochi spiccioli. La vita è finita per loro? Arrestata. Non ho visto neanche un vetro d'auto abbassarsi. Non sarà un caso ma bensì una eccellente metafora vederli fermi al semaforo rosso. Da lì non sanno o non possono più fuggire.

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martedì 17 giugno 2008

Pentesilea

di Salvatore Insana




"E guardate laggiù, per chi scrivete! Uno ne arriva spinto dalla noia, un altro appesantito da un pranzo luculliano, e non pochi, può esserci di peggio? hanno letto da poco il quotidiano. Accorrono distratti, come ad un ballo in maschera, han le ali ai piedi solo per la curiosità, e le signore sfoggiano se stesse ed i vestiti, collaborando gratis alla recita."
Serata alla Comedie Francaise, in place Colette, dove si passa dal tentato piacere d'esser spettatore in un luogo esclusivo all'indagine sociologica d'un ambiente nel quale si conserva uno stato di privilegio bianco e alto borghese, custode di una Francia che non c'è più per le strade, nelle quali è piuttosto la mescolanza di colori e di etichette a predominare



Presepe vivente e documento imperituro d'un teatro imbalsamato ed ancorato a modi e messe in scena assai poco evolutisi negli ultimi cento anni, il prestigioso teatro ospita fino a metà Aprile un nuovo (?) adattamento della Pentesilea di Heinrich Von Kleist, opera nella quale l'autore tedesco, per sua stessa ammissione, ha inserito “tutta la sozzura e tutto lo splendore della mia anima”. In principio infatti l'interesse per questa storia nasceva dal detournement operato dallo spirito disperatamente e radicalmente romantico di Kleist, che ha spostato l'asse degli eventi dal mito omerico della regina delle Amazzoni, giunta a Troia in soccorso ai Troiani e uccisa, dopo numerose vittorie contro i Greci invasori, da Achille, ad una differente figura di eroina e paladina della passione più sublime, anima pulsionale che tralascia e sovverte ogni strategia di guerra, innamorandosi e facendo innamorare lo stesso Achille, rendendo questi innocuo e riducendone in mille pezzi il corpo per violento, eccessivo atto d'amore.

Testo depredato creativamente, in Italia, da Carmelo Bene per il suo Invulnerabilità d'Achille, e attraversato con radicale spirito sperimentatore da Carlo Quartucci e Carla Tatò nel 1984 a Berlino, la Pentesilea di Heinrich Von Kleist, atto unico scritto nel 1807 ma visto su un palcoscenico per la prima volta soltanto nel 1876, soffre in questo adattamento parigino di un registro troppo tradizionale di messa in scena, incurabilmente ancorato ad un neoclassicismo stantio, con attori che sembrano materializzare in carne ed ossa quella perfezione impossibile e priva di ogni slancio che si può osservare nelle figure alla Jean Louis David, immobili nella loro evidente e voluta posa statuaria, emblemi d'un mondo fermo nella conservazione d'un autodistruttivo rigore morale e canone di comportamento. Solo la figura eversiva della Pentesilea nera, pantera agile e nervosa, in questo adattamento più volte con atteggiamenti cari alla vulgata musicale “r&b” - l'unica a muoversi tra i marmi umani della tradizione - cerca di opporsi. Eroina tragica della passione che vuole lottare e vincere contro ogni ragion di stato, ama Achille, colui il quale dovrebbe uccidere per volere degli alleati troiani. Alla legge che procede su linea retta o rimane invero rigida nel suo porre ostacoli e piantare sempre nuovi paletti, Pentesilea è colei che gira a lato, (s)fugge alle consegne, va per la sua tortuosa e fatale strada di chi vive senza previsioni e prevenzioni. Ecco le due correnti che si scontrano, la staticità della legge che affronta il dinamismo! Assolutismo della ragione contro fermento della passione.
Come si è potuto notare anche in questa versione diretta da Jean Liermier, la Pentesilea è una tragedia che poggia tutta la sua forza e la sua potenziale noia sulla parola che si fa attore, la narrazione che prevale sull'azione, il discorso che diventa protagonista ben più dell'atto. Ancora più dell'eroina allora, è l'opera stessa ad essere il punto rivoluzionario di turno, ribelle creazione sdegnosa di piacere nella sua “distanza” dagli eventi, mai visti sul palco e solamente narrati o ri-visti. Nel campo della scena è tutto un re-agire, discutere, riflettere, raccontare l'accaduto, al massimo un progettare, mentre è il fuoricampo a custodire e celare l'azione, a lasciarsi nel buio del parziale non sapere.
È questo un rimando alla nostra quotidianità affaticata dell'arrivare sempre in parziale ritardo sull'azione presente? Quel malinconico prender consapevolezza solamente quando il treno giusto è già passato? Se i dialoghi in lingua francese ancora sfuggono parzialmente alla comprensione totale, l'altra faccia della medaglia è il poter con tranquillità poggiare lo sguardo su tutto il resto, i percorsi coreografici degli attori, le scenografie di richiamo espressionista, l'uso delle luci – piuttosto basse, con nebbia ed umidità connotanti un luogo che s'avvicina all'antro infernale - , ed ancora la gestualità, l'espressione dei volti, in scena ed in platea.Ed infine, la nota umoristica. Se al momento più generosamente patetico della tragedia, quando un affranto Achille si inginocchia ai piedi della regina delle Amazzoni e pronuncia parole di estrema lode - un “ Tu es incroyable, femme etonnant!”, in traduzione francese - un gran colpo di tosse s'avverte dietro le mie spalle, e poi un altro ed un altro ancora, ecco che le residue speranze di trovare in questa recita un trasporto tale da tuffarsi nella storia risultano vane. Si è distratti e distolti, si scuote il capo e si torna a galleggiare nella più o meno critica osservazione della composizione scenica degli attori, della scenografia che cita con un po' di ritardo sui tempi le creazioni futuriste ed espressioniste, si torna a dubitare sull'utilità ed il piacere d'una messa in scena che, tale e quale, avrei potuto vedere nello stesso sacro luogo cento anni addietro. E quella freccia che una della Amazzoni stava per scoccare in direzione del buio, che nello spazio del teatro coincide con le poltrone di platea, forse doveva proprio esser scoccata per svegliare quei fruitori tanto pronti ad applaudire, tanto lieti d'esser in quella prestigiosa postazione.

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lunedì 16 giugno 2008

Insonnia da cellulare

di Michele Trimboli




Le radiazioni prodotte dai telefoni cellulari ritardano e riducono il sonno e non solo: possono causare anche mal di testa e senso di confusione. È quanto emerge da una ricerca condotta dai ricercatori del Karolinska Institute e dell’Università di Uppsala, in Svezia, e coordinata dalla Wayne State University del Michigan, negli Stati Uniti.La cattiva notizia farà certamente godere di soddisfazione tutti coloro che ne sostengono addirittura la nocività assoluta, perfino nelle ore baciate dal sole pieno e splendente. Quasi che l’ormai irrinunciabile telefonino fosse, appunto, uno strumento micidiale, un dispositivo che serve soprattutto a bollire il cervello, se non proprio un pronipote delle bombe “silenziose” che compaiono nelle storie di fantascienza.


Pubblicato dal quotidiano “The Indipendent” , lo studio ha preso in esame 70 individui (35 uomini e 36 donne) di età compresa tra i 18 e i 45 anni: una parte di loro è stata sottoposta ad un bombardamento di radiazioni del tutto simili a quelle emesse da un normale telefono cellulare, un’altra parte, invece, ha fatto da gruppo di controllo e cioè è stata sottoposta a ’false’ radiazioni, situazione paragonabile ad una ’non-esposizione’; a tutti però è stato detto di avere subito gli effetti degli stessi campi elettromagnetici. Le conseguenze riscontrate evidenziano che un utilizzo del “mobile-phone” prima di andare a dormire rallenta la capacità della persona a raggiungere gli stadi più profondi del sonno; le radiazioni elettromagnetiche da cellulare, inoltre, sono responsabili della riduzione del tempo di permanenza in uno stato di sonno profondo, con l’esito di diminuire l’attività dell’organismo relativa allo smaltimento della stanchezza accumulata nel corso dell’intera giornata, minimizzare la capacità di concentrazione, accentuare il grado di stress psicofisico e nei casi più gravi aumentare la possibilità d’insorgenza di patologie dell’ambito psichiatrico come depressione maggiore e disturbi di personalità.

Il processo fisiopatologico relativo è spiegato dal prof. Bengt Arnetz, che ha guidato le ricerche: secondo il luminare, le radiazioni dei cellulari possono essere intese come “evento stressante il sistema nervoso centrale” e, come ogni tipo di “stressor” patologico esistente, influire negativamente su stato di veglia, concentrazione e sonno degli individui.
Soffrite d'insonnia? Iniziate con lo spegnere il telefonino prima di andare a dormire.

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