Assunto di base

La mente è come un paracadute. Funziona solo se si apre.
(Albert Einstein)

venerdì 4 luglio 2008

Ascoltare il lettore mp3 in pubblico

1. Se canti, ricorda: la gente non può sentire la musica.
2. Se balli, il fatto che la gente non può sentire la musica è irrilevante: anche se la sentissero          chiamerebbero ugualmente la neuro.
3. Se devi chiedere o fornire una informazione a un passante, togliti gli auricolari, o danneggerai  anche il suo udito, urlando.
4. Se ti domandano cosa stai ascoltando, non mentire: potrebbero chiederti di fargli sentire.
5. Se stai ascoltando la Tatangelo, rischia, e di’ che si tratta di musica classica.

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giovedì 3 luglio 2008

Linea 13

di Salvatore Insana



La linea tredici è sovraffollata, piena di intoppi e d'incidenti, additata persino da quei professori che arrivano attardati in aula come superstiziosa testimonianza del potere negativo che il numero in questione possiede per tutta una tradizione popolare. Per due volte ho già visto passeggeri senza fiato esser portati a braccia da qualche volenteroso fuori dalla calca di pendolari, involontaria recita di un'altra passione, di un altra pietà, con diverse circostanze, difforme sacralità, ma molto vicina postura di un corpo esangue e muto, a pochi passi dall'eterno riposo, come tutta una iconografia cristiana ci ha trasmesso...Per due volte un'altra corsa si è arrestata. Una collisione, una treno in panne, una momentanea vacanza del sistema di segnalazione, i problemi più ricorrenti.


A tratti percepisco e concepisco le carrozze metropolitane alla stregua di un organismo vivente: queste macchine si nutrono di noi passeggeri, si riempono, si svuotano, si surriscaldano, si ammalano, aprono le bocche per fagocitare nuovi utenti, accelerano la corsa, gareggiano in velocità, a volte rimangono tentennanti, percorrono senza nulla eccepire le medesime rotte ogni giorno, ogni ora, fino all'usura definitiva e fatale, la rottamazione finale che il progresso ha già in conto di esigere per loro. Creature che respirano.

Ci si chiede come possa una intera città reggersi in piedi ed in gran forma con tali grandi bruchi, che dal 1900 a oggi si sono moltiplicati fino a costituire un piccolo esercito di enormi talpe in forsennato andirivieni tra le 14 linee disponibili; una marcia sotterranea che raggiunge ogni limite spaziale del tracciato di città.

E poi, un'intera casistica interessa il rapporto d'ogni passeggero con l'equilibrio. Come si fa a non cadere? Ci si tiene al palo? Diverse modalità di persistere nel logorante lavoro di bilanciamento della giornata, intontita quando essa inizia, assai più pesante quando si avvia al tramonto. Di solito, nel regno metropolitano, a confronto con altri sottoboschi sociali di più palese quanto vacuo prestigio – le vie d'alta moda o il palcoscenico televisivo, ad esempio – s'abbassano i tacchi, le pretese, le acconciature; le teste tendono a formare un angolo di novanta gradi con il resto del corpo; ed insieme crescono gli odori e le rughe sulla pelle dei passeggeri. Invece anche in questo ambiente a Parigi si può essere spettatori di una lieta passerella di figure diverse, di una vita non strangolata esageratamente dai ritmi lavorativi. Un utenza molto più diffusa e ben somatizzata nei corpi dei cittadini rende questa terra senza luce solare uno degli incunaboli più fertili d' esperienze d 'incontri.

Je v'invite à prendre des corrispondences si vous pouvez!

Questo labirinto non è altro che un cervello sotterraneo, l'oscuro convogliarsi di tutte le forze e le spinte della città. Avere dei contatti, delle connessioni, delle corrispondenze. Muoversi tra entrate ed uscite, tra salite e discese. Rodersi e consumarsi tra lancette e file d'attesa è un rispecchiamento su larga scala del funzionamento e dell'andamento dei nostri neuroni nella scatola cranica.

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mercoledì 2 luglio 2008

Apa trece, pietrele rămân (proverbio rumeno: l’acqua scorre, la pietra rimane)

di Salvatore Tigani




Dice, i rom vanno rimandati a casa. Occhio per occhio, sì, ma per ogni mio occhio due dei loro. Dice, vengono a fare casino qua, vadano a farlo a casa propria. Zozzoni, meschini, delinquenti. Dice: rubano, fanno l’elemosina, consumano più di un Suv e sporcano peggio che un cane. Vengono via mare, e ci restano. Ecco, dice, pure per loro, dice, non è meglio se restano a casa? Hanno l’ottanta per cento in più di possibilità di non morire in mare, se il mare proprio non lo prendono.


E poi si ricorda le badanti e fa: no, eh, io il culo a mio nonno non lo pulisco. No, non lo voglio proprio imboccare tre volte al giorno. La badante di mio padre, dice, quella sì che conferma la regola. Cazzo, ci sono rom e rom, come dire, figli della gallina bianca e figli di quella nera. No, forse no, che se fosse un problema di colore, diremmo, ehi, tutti i neri qui, gli altri a casa (viceversa no, altrimenti ci prendono per razzisti). È difficile capire, se un clandestino è in Italia da tanto, da poco, da ieri, da oggi o da domani. Beh, risponde, glielo chiediamo: da quando sei qua? E il clandestino, che oltre ad essere clandestino è anche scemo, risponderà la verità.

E poi gli ricordano che anche gli italiani una volta partivano in cinquemila su una bagnarola che ne poteva portare cento, di esseri viventi mica di esseri umani, ed il viaggio allora era oltreoceano, poco poco più lungo. Gli italiani, pure noi siamo morti da clandestini, pure noi ci hanno rispediti a casa, e allora, che cavolo, ora ci vendichiamo. Dice.
Rom, li fanno pure giocare a pallone, che tristezza, hanno la cittadinanza, almeno quelli, sì, rumena, che, ogni tanto qualcuno gli ricorda, che rom e rumeno non sono proprio sinonimi. Ma chissenefrega, dice, tanto puzzano uguale,e stuprano, rubano, chiedono l’elemosina! Se non ci fossero mai stati, i rom, dice, che Italia sarebbe! Sarebbe un’Italia, pensa, in cui avrebbe dovuto inventarsi un’altra cazzata per farsi votare. Ne muoiono troppi ogni giorno in mare, mentre inseguono il “sogno italiano”, portati a fondo dalle correnti, ripescati a volte dalle guardie costiere; seppelliti quasi mai coi propri cari, sempre con le proprie speranze. Nessuna lapide, per loro, solo acqua.

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martedì 1 luglio 2008

In loving memory

di Licia Ambu


Monumentale. In senso atmosferico. Quando si prova a immaginare quel silenzio da cui a volte nasce la poesia. Spesso quello che dobbiamo cercare dentro di noi, faticosamente. Qui è casa sua. Ti viene paura di romperlo con un respiro e cerchi di trattenerti. Immerso tra la storia di Roma in ogni cardine, una sorta di giardino ricavato dove il tempo si è fermato.Qui, senza limiti nella storia delle parole, dormono umanamente silenti le spoglie di molti artisti, scrittori, liberi pensatori, anche quando liberi sembra impossibile esserlo. Si cammina tra le fila di monumentali lapidi, ognuna con una propria storia, ognuna con vita e significati.


Naturalmente, in questa particolare occasione possiamo rendere lode alla chiesa cristiana, che non concedendo accesso alle anime defunte di protestanti, ebrei, ortodossi, suicidi e attori, ed esiliando le loro spoglie fuori dalle mura, ha in qualche modo contribuito all’edificazione di questo paradisiaco cortile dei dormienti. Successivamente cinto, dopo il 1817, in seguito ad una richiesta di Prussia, Hannover e Russia. Un sapore romantico per chi è estraneo ai dogmi della maggioranza. Ciò spiega anche l’ingresso di alcuni esuli della cultura nostrana tra tanti stranieri, alcuni dei quali noti, altri meno. Suolo sacro e libero, abitato da guardiani particolari, quali solo i gatti possono essere in tale occasione, conferendo un’ideale mistica e lunare ambientazione. 

Camminano o dormono al sole o all’ombra del giardino, a volte ti accompagnano, ti scortano per i sentieri, tutti uguali e tutti diversi.
Qui dove il dolore non si esplicita in forma rituale, ma poetica e passionale, con storie d’amore e amicizia che si rincorrono sulle lapidi e si richiamano. Appena sopra la collina, L’angelo del dolore, un monumento che lo scultore William Wetmore Story, scolpì in memoria e amore della moglie. Indescrivibile per realismo e bellezza. Gadda, Gramsci, Keats e Shelley e molti altri, esuli in vita e in morte e in vita e in morte indimenticabili e diversi.

« This grave contains all that was mortal, of a young english poet, who on his death bed, in the bitterness of his heart, at the malicious power of his enemies, desired these words to be engraven on his tombstone: Here lies one whose name was writ in water »

Poco distante:

Keats! Se il tuo caro nome fu scritto sull'acqua, ogni goccia è caduta dal volto di chi ti piange.
In loving memory.

Via Caio Cestio, 6
00153 Roma
Tel/Fax: 06 5741900
Lunedì-Sabato 9:00 – 17:00
Domenica e festivi chiuso
Ingresso gratuito

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lunedì 30 giugno 2008

Amelie, un'evasione perfetta

di Salvatore Insana




Un'evasione perfetta: apprese le misure necessarie per farsi beffa di un reale infausto e scomodo, faticoso e troppo freddo, Jeunet strangola l'illusione di verosimiglianza e costruisce una favola che naviga beata nell'universo atemporale della migliore finzione possibile. Le fabouleux destin d'Amelie Poulain avanza accattivante e fresco tra gli spazi cosmici delle menti più sognanti.
Il film ha un impianto favolistico ben marcato, con la voce narrante che apre e chiude le parentesi del reale, impiegando un tono di sobria ironia nel narrare le vicende incrociate d'una piccola donna e del contesto che le gira intorno, quello più prossimo e quello tanto vasto quanto vago della Parigi contemporanea. Tuttavia il motore delle azioni si smarca da una totale fiducia nelle potenzialità umane, e ad affida al destino, al Fato, all'incrociarsi causale ed insieme casuale degli eventi, la progressione della narrazione. La Storia passa impietosamente sul tuo corpo, come quelle ruote d'automobile che schiacciano senza patemi il corpo del piccolo passero appena poggiatosi sull'asfalto. Un suicida piomba sulla testa della madre d'Amelie, segnandone la morte improvvisa. Il padre trasferisce tutto il suo amore su un nano da giardino, trascurando la piccola figlia.
Amelie si costruisce il suo mondo ideale.



La spinta surrealista tanto cara al cinema francese è qui in quel cercare i dettagli inavvertibili, nel sorvolare la superficie delle cose per congiungersi con qualcosa che potrebbe andar oltre le apparenze. Continui rilanci ad una dimensione altra permettono di varcare le soglie e finire nell'immaginario, nell'immaginato. Una sorta di escapismo addolcito permea le vicende mentali d' Amelie. Proiettarsi altrove per dimenticarsi del presente. È chiaro che il sognare di Jeunet è quello meno rivoluzionario, più borghese e ordinato possibile. Riconoscendo la specificità del cinema come medium prettamente visivo, il regista dà netta predominanza al visivo: sono le immagini, ed i ritmo che si instaura tra di esse e dentro esse stesse, il principale mezzo di significazione.

Ed è fortissima la ricolorazione significante dell'intero decor scenografico, in aperto omaggio alla scuola impressionista di fine Ottocento, quella del Renoir oggetto feticcio d'uno dei vicini di casa d'Amelie, quella di Derain e d'un certo Cezanne, già ben oltre la semplice impressione e più prossima ad una traduzione coloristica psicologica e personalissima delle immagini catturate dalla retina. Jeaunet, insieme alla scenografa Aline Brunetto ed al direttore della fotografia Bruno Delbonnel, ha tradotto l'universo mentale della sua creatura in quadri che ruotano intorno a quattro colori, utilizzati in tinte molto intense, oscenamente nutrite di forti contrasti: rosso, giallo, verde e blu dipingono Amelie di connotazioni difformi dal grigiore del reale, assegnato al resto del mondo, la parte monocorde del sociale che risulta totalmente indifferente alla nostra sognatrice.



Oltre la favola, l'opera lascia sorprendentemente trasparire uno sfrenato gioco metalinguistico.
Il volto d'ingenuità fascinosa e dal sorriso ammiccante d'Audrey Tautou è il volto della macchina da presa. Notando bene, Amelie, depossedé d'elle meme, pourtant si sensible au charme des petites choses de la vie, non fa che guardare, ad una distanza che si situa in un punto intermedio tra chi è spettatore di se stesso e chi pone la visione come punto di partenza dell'azione. Il suo sguardo è quello dell'estatica curiosità dell'operatore che riprende il reale cercando di catturarne l'essenza, i suoi occhi sono quelli del più attento e più avido osservatore in attesa di carpire il segreto ed il fascino delle piccole cose. Gli occhi di Amelie sono pupille spalancate su un orizzonte sconosciuto, quello del reale da lei sempre trasfigurato. Così è che vediamo in azione un alter ego del regista o del dispositivo cinematografico stesso, davanti uno schermo televisivo, in sala, dietro la finestra, dietro le lenti di un binocolo, appena visibile dietro una tendina in stazione, nel buco di un muro, al centro del grande panorama di Montmartre. E cosa si compie insieme all'atto di guardare? L'oggetto della visione viene studiato attentamente, a volte spiato di nascosto. La scopofilia, pulsione che pervade tanto la macchina da presa quanto lo spettatore, è qui vera protagonista, moltiplicando le azioni di Amelie con quelle degli altri personaggi, a loro volta alle prese con cannocchiali, binocoli, visioni rubate da una finestra. L'autore poi dissemina tracce del suo ruolo creativo in tutte le figure in scena. Amelie agisce come un piccolo Dio-angelo regolatore del mondo che la circonda. Fa squillare i telefoni a comando, fa riconciliare un uomo con la sua infanzia, fa da bonaria vendicatrice sabotando l'appartamento dell'ostile fruttivendolo, fa risolvere l'enigma delle foto fantasma all'amato E. Ma se il suo ruolo da vero regista della scena le riesce con gran maestria, non la stessa cosa accade quando tenta di regolare se stessa. A tu per tu con timidezza ed orgoglio, s'arena nella paura e nell'inazione. Non si può fare il Dio di se stessi senza riempirsi di dubbi prima dell'atto creativo stesso.

La spensieratezza atemporale dell'opera, si fa al contempo racconto di fantasmi: chi ripete per venti volte lo stesso quadro, chi ritrova una lettera dopo 30 anni, chi ritrova la scatola dei giochi dell'infanzia. Il passato si riversa su un presente che non c'è. Ognuno ha il proprio universo personale di riferimento. Ognuno trova un appiglio che faccia tralasciare l'attualità. Così il collezionare foto-tessera, pietre raccattate per strada, o semplici tracce su terra è un esorcismo ben chiaro del tempus fugit che ossessiona anche chi non riesce a confessarlo. Ma poi, in piena regola con i meccanismi favolistici, ed in barba ad ogni violenta constatazione della durezza della vita quotidiana, come ha scritto Anthony Dufraisse, il film diventa uno dei pochi recenti messaggeri di un cinema troppo raro, quello della speranza.

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