Assunto di base

La mente è come un paracadute. Funziona solo se si apre.
(Albert Einstein)

venerdì 11 luglio 2008

Cellulare

di Salvatore Tigani


1. La suoneria migliore è quella che non trilla in pubblico.
2. Non a tutti interessa sapere cosa hai detto al tuo ragazzo, l’altra sera, in pizzeria.
3. Anche se hai chiamato tu, non è detto che il tuo interlocutore gradisca stare al telefono con te per tutto il tempo che vuoi.
4. Ogni tanto, comunque, cambia orecchio.
5. Prima di rispondere e dopo aver chiuso evita di chiedere scusa agli astanti: non si sentiranno presi per i fondelli.

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giovedì 10 luglio 2008

Poesia ladra

di Salvatore Insana









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mercoledì 9 luglio 2008

Biancaneve non è illibata

di Licia Ambu



La voglio come Biancaneve come i sette nani R. Vecchioni
A cosa pensa Biancaneve? Nessuno lo sa. D. Barthelme
Lo sai perché si chiama il sogno americano? Perchè si avvera solo quando dormi. Il guru


Kim Herzinger, nella prefazione a The teachings of Don B, dice a proposito della scrittura di Barthelme: “È incategorizzabile. È così incategorizzabile, in effetti, che la sua incategorizzabilità è praticamente la prima cosa che uno nota”.
In effetti c’è un che di surrealista in Barthelme. Ci si ritrova di fronte una Biancaneve anticonformista, rivisitazione postmoderna dell’eroina dei Grimm, che al confronto splende di un candore talvolta noioso. Da quell’esempio d’impeccabile purezza che ci hanno inculcato madri esauste nel pre-nanna, ritroviamo una fanciulla piena di premure verso sé stessa, che rimira lo specchio solo per contemplarsi il seno (che sia già certezza assodata la questione del reame?) e condivide lo stesso tetto con sette omini arrapati dai nomi pronunciabili, vivaddio. I personaggi sono sagome al limite del possibile, caricature logorroiche che parlano un linguaggio ricercato, aprendo scenari da teatro dell’assurdo ad ogni battuta, con quel sostrato di cinismo e parodia resi da una magistrale immediatezza di linguaggio e un’anarchia insolita della trama.


E allora, non si capisce (davvero?) come sia possibile un esilio tale, Barthelme nascosto e introvabile, seppur ammirato e venerato da Wallace e lo stesso Carver. Allo stesso tempo, va detto, spietatamente ignorato dal grande Truman Capote: “…non riesco proprio a sopportare Donald Barthelme, e non ho mai letto nessuno che scriva, anche vagamente, come lui”, il che lo accredita ulteriormente, se solo si considera l’abituale vena critica di Capote.
E sì, smentiamolo questo luogo comune, perché in fondo noi lo sospettavamo da tanto, ed ora finalmente ne abbiamo la certezza, anche Biancaneve va dall’analista e mentre attende il principe azzurro (un fesso, naturalmente), non se ne rimane a casa inerme, ma fa pratica sessuale con i coinquilini, rigorosamente nella doccia, o con l’analista stesso. Indipendente, baciata da un quasi totale disinteresse per il giudizio altrui, spaesata e impulsiva. È una donna enigmatica quanto basta e si dedica alla scrittura, specialità: poesie erotiche. Biancaneve non rammenda nell’attesa, ma sperimenta, si lancia in voli pindarici inconsci, sogna. La vediamo quasi eroina burlesque, esteticamente nevrotica, tinte forti nero corvino su bianco latte, farsi strada ondeggiando nella metropoli odierna con i suoi cattivi, le sue ombre, i suoi prodotti estremi. I nani sono sempre sette, lavoratori precari, dediti ad attività talvolta illecite ed alla produzione di omogeneizzati cinesi. La critica intelligente, dispensata in ogni parola, una melodia, voce di qualcosa che smentisce la realtà in cui vogliono farci credere. Casa e chiesa è fuori moda. Che è poi, pura contestazione di quel sogno americano tanto declamato, self-made man (e woman?), che ovunque può arrivare se solo possiede volontà a sufficienza. Ma questo c’era una volta… perché Biancaneve non per forza mangia la mela, a volte preferisce vodka Martini con ghiaccio e adesso, finalmente, può scolarselo.

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lunedì 7 luglio 2008

Patti Smith, la vita segnata e quella sognata

di Salvatore Insana


I was lost, and the cost, and the cost didn't matter to me. I was lost, and the cost was to be outside society.

Una lunga onda nera potrebbe colpirvi mentre nuotate nell'aria di Parigi di questi tempi: la caleidoscopica presenza di Patti Smith è reperibile sotto diverse sembianze nei dintorni della Fondation Cartier. E qui è soprattutto la Patti fotografa, disegnatrice e poeta maudite a esser messa in mostra, rivelando gli altri lati creativi di una figura nota soprattutto per la sua carriera da trascinante ed anarchica rocker della musica americana.

Visitando l'esposizione si entra in una rete di connessione di larga vastità. Una rete che non è una trappola ma un punto contatto con l'universo multiforme d'una artista totale. Una mostra che è più una visita a domicilio in un ambiente ricreato con minuzia ad immagine dei contorti e soffusi ambienti in cui vive lo spirito creativo di Patti. Un pezzo alla volta si tenta di ricostruire il mosaico non lineare e non apollineo. Un collage che nasce, per sua stessa ammissione, dalla volontà di comunicare che la pervade fin dall'adolescenza. La larga rassegna di Polaroid in bianco e nero, “relitti della mia vita passata, ricordi dei miei vagabondaggi”, è contornata da un apparato scenografico di forte impatto, con oggetti, ormai reliquie, dei percorsi compiuti dalla Smith alla ricerca dei sui miti (tra cui le pantofole del caro amico Mapplethorpe, una pietra raccolta nel fiume dove si uccise Virginia Woolf, ..), con proiezioni combinate e ripetute di frammenti video, di progetti filmici più o meno importanti, tra cui spiccano il corto in 16mm Still Moving, girato con Robert Mapplethorpe nel 1978, e poi frammenti di un lungo docu-film di Steven Sebring, un diario semi-intimo dell'artista girato con un fare artistico che a tratti affascina ed in altri momenti infastidisce. 

Si tratta di Dream of Life, lavoro del 2007. Se fotografare è per lei un atto di libertà per un atto intimo di libertà ( "Sometimes, if I crave silence I turn to my Land 250. The experience of taking Polaroids connects me with the moment. They are souvenirs of a joyful solitude."), disegnare e dipingere è mettersi davanti alle viscere umane, alla giungla che c'è dentro la mente, all'espressione inconscia delle pulsioni interiori, sulla via di altri forti modelli artistici come Jackson Pollock e David Hockney. Viaggiatrice nel tempo, nello spazio e nei linguaggi Patti Smith appare come sacerdotessa d'un mondo nero, tanto buio quanto profonda è la dimensione che vuole raggiungere attraverso le sue diverse proposte artistiche. Un buio che però abbraccia con gioia, con la spinta a muoversi attraverso il processo della scoperta che rende tale ogni artista. A otto anni riceve dalla madre un libro di William Blake, Songs of Innocence. I germi di quello che verrà, nel bene o nel male, si annidano nell'infanzia. E quel libro di un autore che lei stessa definirà incompreso e mal apprezzato ai suoi tempi, costretto a vivere tra la povertà e l'umiliazione, segna inevitabilmente il suo immaginario, indirizzandolo verso quelle figure che per ricerca, per inquietudini, per intensità di passione, sono di certo affini al poeta inglese. I suoi punti di riferimento diventano allora Walt Whitman e Charles Baudelaire, il suo alter ego Virginia Woolf, la poetessa tragicamente suicidatasi sulle rive di un fiume. L'inconfessabile modello la stessa figura di Cristo in croce. Patti va a vedere, a rendere omaggio. Le istantanee formato Polaroid, d'un bianco e nero magnetico e affascinante nella sua poca leggibilità, raccolgono tanti di questi luoghi della memoria. Vive a Parigi alla fine degli anni '60. Sulla via più maledetta della creazione. Sulle tracce di tutti gli angeli caduti prima di lei sul campo di battaglia della più sensibile e creativa umanità corrosa e crocifissa dalla nullificante ordinarietà del vuoto. Un piccolo pantheon di riferimenti dichiarati ed innalzati a guide spirituali. Da Nerval a Baudelaire, da Rimbaud a Renè Daumal, fino ai quasi coetanei Bob Dylan e Jim Morrison e al compianto genio della fotografia Robert Mapplethorpe, cui è dedicata una vera sala funeraria. E poi una gran fascinazione per tombe ed altari di chi l'aveva preceduta sullo stesso percorso di ricerca e perdizione l'accompagna verso il cimitero di Montparnasse e quello di Pêre Lachaise. Una stagione all'inferno, con consapevolezza e volontà d'osare. Il film di Sebring si pone tra il diario in prima persona e la confessione davanti un obiettivo posato nei movimenti e rispettoso dal carisma della regina del rock americano. Patti Smith traccia le tappe più significative della sua vita, tesse la tela delle relazioni intellettive ed affettive che l'hanno attraversata, con saggezza orientale s'approccia all'esistenza definendola una serie di fortunati e sfortunati momenti. 

Ripassa meditante sui luoghi dismessi e quelli a parte, Coney Island o ancora i cimiteri, la casa dei genitori, lo struggimento per le morti eccellenti, quella del marito e quella dello stesso Mapplethorpe. Ne emerge un ritratto intimo d'una poetessa, icona della controcultura americana, con William Burroghs come padre spirituale, Allen Ginsberg come amico, Gregory Corso come beat-poet preferito. Attivamente impegnata nel ricordare quanto la sua terra sia ben lontana delle bassezze del malgoverno Bush, Patti non si è fermata mai al primo accenno di gloria. Ha proseguito a cercare, dalla parte di tutti i “neri” del mondo, i discriminati o gli abbandonati della società, gli incompresi, i dimenticati. Quello che le manca, a tratti, è il fatto di dimenticarsi d'essere un'artista. O il volerlo troppo esserlo. Crearsi un percorso che la faccia rientrare nella storia di quell'arte che ama e che segue, è forse un peccato di eccessiva intenzionalità, di ambizioso orgoglio. Ma scegliere una strada è cercare un senso, è aver la soave illusione d'averlo trovato. Una solennità troppo palese per non cadere nella recitazione della solennità stessa, nell'atto teatrale manieristico.
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